Mario Francese, il primo “delitto eccellente” della città mattatoio

di A. BOLZONI e F. TROTTA

 

È il primo “delitto eccellente” della Palermo che sta cambiando padroni. E, non a caso, la vittima è un giornalista. Uno di quelli che sapeva e scriveva tanto. Il messaggio che mandano i mafiosi è molto chiaro: silenzio. La sera del 26 gennaio 1979 Mario Francese, cronista giudiziario de “Il Giornale di Sicilia”, viene ammazzato dai sicari di Cosa Nostra. Resteranno nell’ombra per molti anni, poi si scoprirà che ad ucciderlo è stato Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina, il nuovo capo dei capi della Cupola.
In quel 1979 i Corleonesi cominciano a conquistare Palermo e la Sicilia. Sparano, seminano terrore. Mario Francese, prima di ogni altro, capisce che Palermo presto diventerà una città mattatoio.
Il 9 marzo successivo c’è l’omicidio di Michele Reina, che è il segretario provinciale della Democrazia Cristiana. Il 21 luglio tocca al capo della squadra mobile Boris Giuliano, colpito alla spalle con sette colpi di pistola sempre da Bagarella. Il 25 settembre cade Cesare Terranova, il magistrato che alla fine degli anni ’50 con le sue indagini aveva “scoperto” i Corleonesi e che era stato appena nominato consigliere istruttore del Tribunale di Palermo. Con il giudice muore anche Lenin Mancuso, un poliziotto che è al suo fianco da una vita.
Dopo la morte di Mario Francese la mafia porta via anche uno dei suoi quattro figli, il più piccolo. È Giuseppe, che consuma la sua esistenza a cercare una verità sul destino del padre. Insegue indizi, raccoglie ogni traccia, suggerisce le sue “intuizioni” ai sostituti procuratori che investigano sull’omicidio del padre. E inizia anche lui a scrivere di mafia. Il 2 settembre del 2002 – dopo la prima sentenza di condanna contro esecutori materiali e mandanti del delitto Francese – Giuseppe decide di andarsene, si toglie la vita. Il processo si era concluso un anno e tre mesi prima. La Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, ha condannato come sicario Leoluca Bagarella e come mandanti Salvatore Riina, Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco e Giuseppe Calò.
Oggi e per circa 30 giorni, sul nostro nuovo Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci di quella sentenza. Nel documento giudiziario, i magistrati hanno riservato ampio spazio agli articoli di Mario Francese. Sugli affari miliardari della diga Garcia (oggi ribattezzata proprio col nome del giornalista), sull’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, sull’agguato contro l’avvocato Ugo Triolo, assassinato esattamente un anno prima – il 26 gennaio 1978 – a Corleone.Nella sentenza si ricostruisce anche l'”ambiente” di lavoro di Mario Francese, quel “Giornale di Sicilia” dove lavoravano tanti bravissimi cronisti ma anche qualcuno su un confine indecente.

Il massacro dei sindacalisti

A. BOLZONI e F. TROTTA
È una lunga strage quella dei sindacalisti uccisi dalla mafia. Una strage che inizia più di un secolo fa – nella seconda metà dell’Ottocento – e che continua subito dopo la seconda guerra mondiale. Da una parte i ricchi proprietari e i campieri che difendevano il feudo, dall’altra un popolo affamato che occupava le terre. Al fianco dei contadini e dei braccianti c’erano loro, i sindacalisti. Tutti bersaglio dei boss e dei possidenti. Una mattanza senza fine.
L’omicidio più famoso è stato quello di Placido Rizzotto, assassinato a Corleone da Luciano Liggio e dai suoi scagnozzi il 10 marzo del 1948. Ma chi è stato ucciso prima di lui? E chi, dopo di lui?
Chi erano Luciano Nicoletti e Andrea Raia? Quando avvennero i massacri di Caltavuturo e di Marineo? Perché vennero ammazzati Vincenzo Sansone e Filippo Intili?
Morirono davvero in tanti ma nessuno li ricorda o sa esattamente chi sono quei “tanti”, sono spesso solo nomi incisi su ceppi e lapidi.
Da oggi e per circa venti giorni sul Blog pubblicheremo alcune storie di queste vittime, tratte dal libro di Dino Paternostro scritto per Edizioni La Zisa. Titolo: “La strage più lunga. Un “calendario della memoria” dei dirigenti sindacali e degli attivisti del movimento contadino caduti tra il 1893 e il 1966”.
Il libro di Paternostro scopre alcuni nomi di “vittime” che in realtà non erano tali. E’ un preziosissimo contributo. Contro l’approssimazione con la quale si compilano gli “elenchi” delle vittime delle mafie e sulla necessità di una rigorosa ricerca storica. Nel volume è inserita anche una corposa scheda su Pio La Torre, il leader del Partito Comunista italiano assassinato il 30 aprile del 1982 a Palermo. La sua battaglia contro la mafia era cominciata infatti nei latifondi della Sicilia più profonda, un Pio La Torre sindacalista che fu tra i primi a capire che la mafia non era solo coppola e lupara ma “un fenomeno di classe dirigenti”.
Gli articoli li trovate anche sulla pagina Instagram dell’Associazione Cosa Vostra.
Supervisione Tecnica a cura di Alessia Pacini.
 

Il grande depistaggio

A.BOLZONI, C.FRATI e F.TROTTA
Il giudizio della Corte di Assise di Caltanissetta: «E’ uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana».
Quello c’è scritto nella sentenza sul cosiddetto Borsellino quater è stato oggetto di lunga indagine anche da parte della Commissione Antimafia siciliana, presieduta da Claudio Fava.
Un’ottantina di pagine che tratteggiano la lunga vicenda processuale sulla strage di via d’Amelio e le gravi anomalie succedute nel corso del tempo. Da oggi e per circa trenta giorni pubblichiamo sul nostro Blog ampi stralci della relazione.
A partire dalle domande che ha posto Fiammetta Borsellino, che coraggiosamente e lucidamente, ha individuato colpe ed errori di alcuni uomini dello Stato. Dodici domande, quelle della figlia del procuratore, che attendono ancora risposta. Un “vuoto di verità” che scandisce da quasi trent’anni le morti di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Claudio Traina, Emanuela Loi ed Eddie Walter Cusina.
La commissione Fava evidenzia come “ben tre Corti di Assise di Caltanissetta (d’Appello nel giudizio Borsellino 1, di primo grado nel Borsellino bis e ter), disponendo sostanzialmente dello stesso patrimonio probatorio valutato successivamente dalla Corte d’Appello nel Borsellino bis, erano pervenute ad identici risultati valutativi, tutti radicalmente negativi, sull’attendibilità di Scarantino”. Eppure si è andati avanti ugualmente con la storia del picciotto della Guadagna, il “pupo vestito” che doveva apparire per forza attendibile.
Nella relazione Fava si spiega anche come il depistaggio sulla strage sia iniziato prima, ancora prima che la strage venisse realizzata.
Scrive la Commissione, a conclusione della sua indagine: «Se i molti che ebbero consapevolezza delle forzature avessero scelto di non tacere, se non vi fosse stata – più volte e su più fatti – una pervicace reticenza individuale e collettiva, non saremmo stati costretti ad aspettare la collaborazione di Gaspare Spatuzza per orientare le indagini nella direzione opportuna».
Depistaggi, omertà, falsi pentiti, funzionari infedeli. Una strage non di sola mafia.
 
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Hanno collaborato: Linda Bano, Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Francesca Carbotti, Sara Cela, Rosa Cinelli, Ludovica Marcelli, Marta Miotto, Enza Marrazzo, Sofia Matera, Sara Pasculli, Asia Rubbo
Supervisione Tecnica a cura di Alessia Pacini.

Morire di mafia

di ATTILIO BOLZONI
Storie di mafie e storie di vittime di mafie. Storie dimenticate o storie mai chiarite del tutto, nelle regioni a tradizionale “presenza” mafiosa e in quei luoghi ritenuti – a torto – lontani dal crimine organizzato.
Chi era Alberto Calascione? Chi ha ammazzato Nicola Ciuffreda? Come è morto Luigi Ciaburro? Perché è stato ucciso Michele Reina?
Torna una nuova serie dedicata alle vittime di mafia.
La giornata nazionale della memoria quest’anno si sarebbe dovuta tenere a Palermo il 21 marzo, annullata a causa del Covid e poi rinviata ad ottobre per quest’anno è stata cancellata definitivamente Così abbiamo deciso di ricordare lo stesso, proprio ad ottobre, alcuni di quei nomi che non andrebbero mai abbandonati al silenzio.
Le loro storie ci accompagneranno sul Blog Mafie per una ventina di giorni.
Un lavoro di memoria, curato dai ragazzi di “Cosa Vostra” (che nelle loro ricerche e nei loro studi continuano a coinvolgere le scuole) che per far conoscere queste vicende si sono rivolti anche ai familiari delle vittime. Per capire, direttamente da loro, cosa ha significato perdere il proprio padre o il proprio fratello. Chi era Nicolò Azoti? Sono mai stati condannati gli assassini di Accursio Miraglia? Perché è stato eliminato Emanuele Piazza? Chi ricorda ancora il sacrificio di Lenin Mancuso?
Una piccola notizia in anteprima. Tra dieci giorni, sugli scaffali delle librerie troverete “Morire di Mafia – la memoria non si cancella”, edito da Sperling & Kupfer, un volume ideato e realizzato proprio dall’associazione “Cosa Vostra” nel quinto compleanno dalla sua fondazione. Il progetto è coordinato da Alessia Pacini e Francesco Trotta.
Non è solo un libro che raccoglie duecento storie di vittime, è il tentativo di unire più generazioni che si confrontano su questo delicato tema: fare memoria.
Un libro a più mani che ha trovato il sostegno del Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Nicola Morra, l’aprezzamento del magistrato Sebastiano Ardita e le belle parole spese dall’amico giornalista Piero Melati: «Un lavoro collettivo di memoria, documentato, privo di retorica e pieno d’amore. Per imparare a non dimenticare mai».
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SUPERVISIONE TECNICA A CURA DI ALESSIA PACINI
 

Il mistero di Mauro De Mauro

ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO TROTTA
Sono passati cinquant’anni dal giorno della sua scomparsa. Era il 16 settembre del 1970 e il giornalista de “L’Ora” Mauro De Mauro, uno dei reporter più famosi della Sicilia, viene rapito sotto casa a Palermo.
Aveva appena posteggiato la sua BMW accanto al portone d’ingresso in viale delle Magnolie, l’ultima a vederlo – dalla finestra della sua abitazione – fu la figlia Franca. Suo padre era insieme a tre uomini. Poi il silenzio. La Bmw di Mauro fu ritrovata il giorno dopo dall’altra parte della città, le chiavi inserite nel cruscotto. Ma di  Mauro nessuna traccia. Una lupara bianca, un sequestro senza ritorno.
Chi l’ha rapito? E perché? E’ vivo? E’ morto? Dove è stato nascosto il suo cadavere? Dopo cinquant’anni è ancora mistero profondo. Dopo cinquant’anni solo ipotesi. Come quella sera di settembre del 1970.
La pista droga seguita dai carabinieri – subito rivelatasi inconsistente – con De Mauro che aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.
La pista del golpe Borghese, un tentativo di colpo di stato che gli irriducibili fascisti guidati dal principe nero della Decima Mas avrebbero voluto fare il giorno dell’Immacolata di quel 1970, con De Mauro – che in gioventù era entrato in contatto con quegli ambienti – che era venuto a conoscenza di particolari sul golpe.
La pista del delitto del presidente dell’Eni Enrico Mattei, con Mauro che aveva scoperto qualcosa dopo l’incarico ricevuto dal regista Francesco Rosi per la stesura della sceneggiatura di un film proprio sulla tragica fine di Mattei.
Il 27 ottobre del 1962 il presidente dell’Eni fu ucciso – ma si sarebbe accertato moltissimi anni dopo – in un attentato. L’inchiesta del magistrato Vincenzo Calia della procura di Pavia, ha dimostrato che sull’aereo di Mattei – in volo da Catania a Milano –  era stato piazzato dell’esplosivo. Un boato nei cieli di Bascapè, nella bassa pavese.
Nelle pieghe di questa inchiesta sull’attentato a Mattei, la procura lombarda ha svolto un’indagine anche sul rapimento di Mauro De Mauro che ha trasmesso alla procura della repubblica di Palermo.
Da oggi e per circa trenta giorni ne pubblichiamo ampi stralci sul Blog.
E’ una preziosa inchiesta che fa affiorare tanti nomi e tantre storie che si incroceranno negli anni successivi a Palermo. Quella del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, quella del vicequestore Boris Boris Giuliano (straordinaria la sua capacità di “leggere” gli avvenimenti in quel 1970 e straordinario il suo impegno nella ricerca della verità sulla scomparsa di Mauro De Mauro), quella del senatore padovano Graziano Verzotto, emigrato in Sicilia e diventato segretario regionale della Democrazia Cristiana e poi invischiato in uno dei primi scandali del banchiere Michele Sindona.  Quello di un famigerato “Mister X”, alias Vito Guarrasi, uno dei “grandi vecchi” della Sicilia più misteriosa.
Dopo cinquant’anni però, sulla scomparsa del nostro collega ancora il buio.
 
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Hanno collaborato: Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Francesca Carbotti, Sara Cela, Rosa Cinelli, Ludovica Marcelli, Marta Miotto, Enza Marrazzo, Sofia Matera, Asia Rubbo
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Don Pino, un delitto annunciato

A. BOLZONI S. BORTOLETTO e F.TROTTA
A maggio, cinque mesi prima, Papa Wojtyla durante la messa celebrata nella Valle dei Templi di Agrigento aveva gridato il suo anatema contro la mafia. E ai boss aveva urlato: «Convertitevi». A settembre, cinque mesi dopo, Cosa Nostra ha ucciso don Pino.
Era il giorno del suo cinquantaseisimo compleanno, il 15 settembre 1993. Quella sera padre Puglisi stava rientrando a casa, nel suo appartamento di piazza Anita Garibaldi, nel quartiere palermitano di Brancaccio. Erano pressappoco le 20 e 40. Qualcuno lo stava aspettando con le armi in pugno, gli è scivolato alle spalle e gli ha sparato un colpo alla nuca.
Don Pino era il parroco della chiesa di San Gaetano, a due passi abitavano i fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, i boss delle stragi che fra un attentato e l’altro tenevano il moccolo a Totò Riina.
La chiesa di Don Pino non era la loro chiesa, quella che negava l’esistenza della mafia e dava rifugio ai latitanti. Lui, sacerdote impegnato nel sociale, rifletteva perfettamente l’impegno evangelico in quella borgata periferica di Palermo,  degradata, dove si respirava omertà e dove in tanti – troppi – erano schiavi del potere mafioso.
Don Pino aveva sfidato i boss semplicemente svolgendo il dovere di un prete: offrire ai ragazzi del suo quartiere un’alternativa diversa da quella della criminalità.
Non erano mancate le intimidazioni. Alla fine di giugno del 1993 in una notte qualcuno aveva incendiato la porta di casa di tre volontari del Comitato intercondominiale di Brancaccio, poi le molotov contro la chiesa, poi ancora le telefonate e le lettere anonime. Segnali.
Era un prete troppo ingombrante, un prete troppo pericoloso. Non per quello che diceva, ma per quello che faceva. Lontano dalle passerelle, dai riflettori, dalle parate.
I Graviano lo tenevano d’occhio. Il suo è stato un delitto annunciato.
Da oggi e per quindici giorni pubblichiamo sul Blog stralci della sentenza di primo grado (presidente Innocenzo La Mantia) che ha condannato a 18 anni di reclusione il killer Salvatore Grigoli – reo confesso poi diventato collaboratore di giustizia – e all’ergastolo come mandanti i fratelli Graviano.
Un delitto che non doveva sembrare un’esecuzione mafiosa ma l’azione violenta di qualche balordo. Il sicario, un attimo prima di far fuoco, gli aveva portato via il borsello. E mentre Grigoli sparava, don Pino ebbe il tempo di voltarsi, guardarlo negli occhi, sorridere e dirgli: «Me lo aspettavo».
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Il grande mistero del covo

A. BOLZONI, S. BORTOLETTO, F. TROTTA
E’ il grande mistero che segue alle stragi del 1992: la cattura “telecomandata” di Totò Riina. E’ la storia del suo covo abbandonato dai carabinieri e ripulito dai mafiosi. E’ il segreto sulla scomparsa del suo tesoro, un archivio zeppo di nomi finito in chissà quali mani. Carte che sono ancora oggi una formidabile arma di ricatto.
La mattina del 15 gennaio 1993 il capitano “Ultimo” con la sua squadra arresta il latitante più ricercato d’Italia, il Capo dei Capi, sparito nel nulla da 24 anni e sette mesi. L’Italia è con il fiato sospeso, qualcuno azzarda che sia la fine di Cosa Nostra, in realtà qualcun altro ha messo nel sacco Totò Riina dopo avere usato il suo delirio di onnipotenza per l’attacco allo Stato.
Ma come sono arrivati a lui i carabinieri del Ros (Reparto Operativo Speciale) del colonnello Mario Mori? Quali tracce hanno seguito? Chi li ha portati a stringere il cerchio su quello che era considerato il più sanguinario e potente capomafia di tutti i tempi? Chi ha venduto al Ros il Capo dei Capi? E perchè?
Totò Riina viene preso intorno alle 8 del mattino alla rotonda di viale Lazio dopo che aveva lasciato la sua ultima dimora in via Bernini, zona occidentale di Palermo, un gruppo di villette di proprietà dei costruttori mafiosi Sansone.
La versione ufficiale del Ros dei carabineri sulla cattura presenta subito alcuni “buchi neri” ma il caso esplode quando si scopre che Ultimo e i suoi uomini abbandonano il controllo della villa di via Bernini – nonostante assicurazioni sulla sorveglianza – poche ore dopo la cattura di Totò Riina. Nessuno la perquisisce per diciannove giorni. Quando il procuratore capo della repubblica Gian Carlo Caselli entra lì dentro il 2 febbraio è vuota, con i sanitari dei bagni divelti, tutti i mobili accatastati in una stanza.
I pentiti di Cosa Nostra racconteranno della “pulizia” del covo eseguito dai picciotti grazie al “disguido” dei carabinieri, l’abbandono improvviso del covo senza avvisare i procuratori. La magistratura palermitana – con enorme ritardo – aprirà quattro anni dopo un’inchiesta sul covo svuotato e sugli ordini impartiti quel giorno dal vicecomandante del Ros Mario Mori e dal capitano della prima sezione del Ros Sergio De Caprio, conosciuto col soprannome di capitano “Ultimo”.
Vengono entrambi accusati del reato di favoreggiamento aggravato dalla finalità di agevolare l’associazione mafiosa nota come Cosa Nostra. Tutti e due verranno assolti «perché il fatto non costituisce reato». Ma il mistero del covo resta ed è entrato anche nel processo (come la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso e la mancata cattura di Benedetto Santapaola a Barcellona Pozzo di Gozzo) sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia,
Per i prossimi trenta giorni pubblicheremo sul nostro Blog stralci della sentenza 514/06 dei giudici della terza sezione penale del Tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.
Una verità giudiziaria che però ha fatto emergere tante ombre nonostante le assoluzioni. Ombre che si allungano fino ad oggi nonostante le fiction televisive dedicate alla cattura di Totò Riina e certe pubbicazioni che sembrano favolette per bambini.
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Chinnici e la strage “libanese”

di A.BOLZONI, S.PASCULLI e F.TROTTA
Sembrava Beirut. Ma la mattina del 29 luglio 1983 Palermo era peggio di Beirut. Un boato al centro della città, una colonna di fumo che si alza nel cielo, automobili sventrate, macerie, una voragine nell’asfalto.
“Una strage alla libanese”, titolarono in prima pagina i giornali italiani.
Un’autobomba per uccidere Rocco Chinnici, capo dell’ufficio ufficio istruzione del Tribunale, il giudice che aveva gettato il seme per far nascere il pool antimafia. I boss di Cosa Nostra avevano ucciso così uno dei suoi nemici più pericolosi. E insieme a lui il marescialllo dei carabinieri Mario Trapassi, l’apppuntato Salvatore Bartolotta e anche Stefano Li Sacchi, il portiere del palazzo dove abitava il magistrato.
Da oggi e per circa trenta giorni sul nostro Blog pubblicheremo ampi stralci della sentenza di primo grado del “Chinnici Bis” (presidente della Corte d’assise di Caltanissetta Ottavio Sferlazza) che nel 2000 ha condannato all’ergastolo Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele e Stefano Ganci, Antonio e Francesco Madonia, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Giuseppe Calò, Salvatore e Giuseppe Montalto, Vincenzo Galatolo, Matteo Motisi e Giuseppe Farinella. Nei successivi gradi di giudizio verranno assolti Motisi e Farinella mentre i collaboratori di giustizia, Giovan Battista Ferrante e Calogero Ganci saranno condannati a 18 anni, Francesco Paolo Anzelmo e Giovanni Brusca rispettivamente a 15 e 16 anni.
La strage di Via Pipitone Federico rimane comunque una vicenda giudiziaria in qualche modo “incompiuta”. Sullo sfondo gli esattori di Salemi, i cugini Nino e Ignazio Salvo, uomini d’onore meglio conosciuti come “i vicerè” della Sicilia, ricchissimi, potentissimi, legatissimi alla politica che al tempo comandava. I Salvo – uno (Nino) morto nel suo letto un paio di anni dopo la strage e l’altro (Ignazio) assassinato dai Corleonesi nel settembre 1993 –  erano entrati nel mirino delle indagini di Rocco Chinnici. Assolti in Cassazione anche Michele e Salvatore Greco – che erano stati condannati in primo grado – per vizi procedurali dalla prima sezione presieduta dal famoso giudice “ammazzasentenze” Corrado Carnevale.
Nella strage “alla libanese” ci fu un unico sopravvissuto: Giovanni Paparcuri. Quella mattina di luglio del 1983 era l’autista di Rocco Chinnici, qualche anno dopo Paparcuri diventò l’esperto informatico del pool antimafia dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. A sostituire Chinnici arrivò da Firenze il consigliere Antonino Caponnetto.
Con lui la nascita ufficiale di quella straordinaria avventura che portò alla celebrazione del maxi processo contro Cosa Nostra. I quattro giudici del pool erano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
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I misteri dell'Addaura

A. BOLZONI, L. MARCELLI e F. TROTTA
Sono passati più di trent’anni e quello che tutti conosciamo come “il fallito attentato dell’Addaura” resta uno dei grandi misteri italiani. Di sicuro c’è solo che, in quel giugno del 1989, Giovanni Falcone ha iniziato a morire.
A partire da oggi e per circa trenta giorni, il nostro Blog pubblicherà ampi stralci della sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta (presidente Giacomo Bodero Maccabeo, consigliere Michele Barillaro) pronunciata l’8 marzo 2003.
E’ un documento che ricostruisce dinamica e movente intorno a quei cinquantotto candelotti che dovevano far saltare in aria il giudice che, per primo, aveva fatto paura alla mafia e ai suoi complici.
Nonostante le prove trovate contro Totò Riina, Nino Madonia, Salvatore Biondino, Giovan Battista Ferrante e Francesco Onorato (questi ultimi due diventati in seguito collaboratori di giustizia) e le condanne in un successivo processo contro Vincenzo e Angelo Galatolo il fallito attentato sulla scogliera dell’Addaura, dove Giovanni Falcone ogni estate prendeva una villa in affitto, rimane ancora una pagina di storia tutta da scrivere.
In quel fine primavera dell’89 Falcone era impegnato, insieme alla giudice svizzera Carla Del Ponte, su un’importante rogatoria intorno a operazioni di riciclaggio di denaro. E la Del Ponte, accompagnata dal suo collega Claudio Lehman, il giorno del fallito attentato era stata invitata proprio nella villa dell’Addaura. Solo una coincidenza? O qualcuno conosceva tutte le mosse di Falcone e dei suoi ospiti?
Il giudice parlò di “menti raffinatissime” dietro quel tentativo di ucciderlo, menti raffinatissime «che tentano di orientare queste azioni della mafia… esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi».
Insomma, già da allora c’era qualcuno altro, oltre Cosa Nostra, che lo voleva morto. E lui l’aveva capito.
Al tempo, l’inchiesta sul fallito attentato fu ostacolata da depistaggi e grandi silenzi. In un primo momento si ipotizzò che i sicari fossero venuti dal mare su un gommone, piazzando poi l’esplosivo sugli scogli. Molti anni (e pentiti) dopo le investigazioni hanno fatto qualche piccolo passo avanti ma senza mai scoprire chi aveva “aiutato” i boss.
Ancora avvolte nel mistero anche le uccisioni di Nino Agostino ed Emanuele Piazza, il primo poliziotto del commissariato San Lorenzo e il secondo collaboratore dei servizi segreti. La loro morte è legata a quel fallito attentato. Dopo l’assassino dell’agente Agostino, il capo dei capi Totò Riina ordinò addirittura un’indagine interna a Cosa Nostra per sapere chi era il mandante. Evidentemente non era stato lui.
Il fallito attentato dell’Addaura è arrivato dopo mesi e mesi di   tentativi per delegittimare il giudice Falcone. Un clima infame, che cominciò con lettere anonime che lo descrivevano come un “killer di Stato” che aveva fatto scendere in Sicilia il pentito Totuccio Contorno per consentirgli di scovare e uccidere i nemici di cosca.
Naturalmente, subito dopo il ritrovamento dell’esplosivo sugli scogli, qualcuno mise in giro una sola voce su Falcone: «L’attentato se l’è fatto lui».
Hanno collaborato: Elisa Boni, Silvia Bortoletto, Francesca Carbotti, Sara Cela, Rosa Cinelli, Enza Marrazzo, Sofia Matera, Sara Pasculli, Asia Rubbo
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Mafie e Covid, il report della Dia

di A. BOLZONI e F. TROTTA
Per le mafie, come si sa, ogni emergenza è un’occasione per fare affari. Se n’è parlato tanto in questi mesi di Coronavirus, a proposito e anche a sproposito. Tutti che lanciano allarmi, tutti diventati super esperti che prevedono, azzardano, delineano scenari più o meno apocalittici.
La materia è molto delicata e sul nostro Blog interveniamo per la prima volta sulla questione “mafie e pandemia” affidandoci al sapere e all’esperienza sul campo, gli analisti della Dia (Direzione Investigativa Antimafia) che ogni giorno e da tanti anni “ascoltano” il territorio per decifrarne gli umori, che investigano per scoprire gli obiettivi eversivi della criminalità organizzata e ne studiano le mosse per predisporre efficaci piani di contrasto.
Così, per sette giorni, pubblichiamo un documento interno della DIA proprio sul “pericolo mafie” scatenato dal Coronavirus. Sono indicazioni ai capi centro sparsi per l’Italia che arrivano dal generale dei carabinieri Giuseppe Governale, che della Direzione Investigativa Antimafia ne è il direttore.
E’ un documento estremamente interessante sulla paralisi economica e la ridotta disponibilità di liquidità finanziaria che si sono abbattute su un sistema nazionale già in difficoltà, situazione ideale per le mafie che tenteranno di consolidare sul territorio il proprio consenso sociale con varie forme di assistenzialismo (dall’elargizione di beni di prima necessità ai prestiti di denaro) e con più fini: impadronirsi delle imprese, riciclare denaro sporco, porre solide basi per garantirsi un ruolo nelle prossime competizioni elettorali.
La DIA ha individuato tutti i settori a più alto rischio d’infiltrazione: il sistema sanitario e i servizi funebri e cimiteriali, il turismo, la ristorazione, la filiera agroalimentare, gli appalti pubblici e l’abbigliamento, i giochi e le scommesse on line illegali, il traffico di esseri umani e molto altro ancora. Una parte del dossier è dedicata alle azioni di prevenzione e contrasto, una guida ragionata contro tutte le mafie al tempo del Coronavirus.